Sulla vicenda dei buuu a lukaku è comparso questo commento di Massimo Crivelli, commento che ho trovato molto interessante perché mostra la tanta “benzina” con la quale molti antirazzisti sperano, stoltamente, di spegnere i fuochi del razzismo.
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Sardi razzisti? Etichette gratuite a tutto un popolo: il commento di Massimo Crivelli
Svegliarsi e scoprire di essere razzisti: opera di censori in servizio permanente
Lunedì ho fatto una scoperta: sono un razzista. Stessa amara considerazione han dovuto fare, riguardo a se stessi, tutti i sardi, non solo i sedicimila che erano allo stadio domenica scorsa per assistere a Cagliari-Inter. L’hanno certificato, un po’ alla spiccia, senza nemmeno un processo sommario, telegiornali nazionali e “giornaloni” continentali che sul caso Lukaku hanno gonfiato la realtà per far bella figura.
Diciamo che lo strumentalizzare, il far credere che l’italia sia preda di bande che non hanno nulla da invidiare al KKK, bande che si dedicano alla caccia al “nusbari” è utile ad una narrazione polarizzante bene assoluto contro male assoluto, oltre che utile per puntellare il governo illuminato che salverà l’italia dalla barbarie. E pazienza se per farlo si getta merda su una intera popolazione, merda che poi spesso ritorna al mittente con gli interessi.
Da notare come funziona “il principio di generalizzazione a cazzo”; ovvero se un elemento “a” dell’insieme X, che mi sta sulle balle, fa qualcosa di sbagliato, tutto l’insieme X condivide la colpa di “a”. Viceversa se a fare qualcosa di sbagliato è un elemento b dell’insieme Y b è un caso sporadico, e poi pensate prima alle immense, incommensurabili colpe dell’insieme X che a qualche peccatuccio di b.
Occhio che se si sdogana il principio poi anche l’altra parte ne abuserà un sacco. Un blu dice stronzo a un verde => tutti i blu son verdofobi. Un verde dice stronzo ad un blu => tutti i verdi odiano i blu. Sono entrambe generalizzazioni a cazzo.
Quanti erano i tifosi che hanno fischiato o ululato? Venti, trenta? Non si sa. L’hanno fatto per disturbare l’esecuzione di un rigore contestato o per dileggiare il centravanti avversario di pelle nera? Prendiamo per buona la seconda ipotesi. Ma basta ciò per affibbiare un’etichetta infamante a tutto un popolo, a scambiare l’ignoranza per indole razzista? Sull’argomento si sono già espressi in modo eccellente il direttore e l’editore. Ci torno su solo perché ho la sgradevole sensazione che stiamo andando verso una deriva incontrollata e paradossale del politicamente corretto.
Il sogno bagnato di molti “puri” è l’essere i puri più puri che hanno il diritto divino e morale di epurare tutti gli impuri, e più impuri trovo, più puro sono io.
Personalmente ne ho avuto le avvisaglie tempo fa quando una mia amica (per inciso: colta e preparatissima) mi ha inviato un sms chiedendomi «chi è Tacitus?». Contestava l’articolo del nostro corsivista col quale, pienamente a ragione, ironizzava sul quel sindaco che aveva impartito disposizioni affinché gli impiegati, nel redigere le scartoffie, usassero il più possibile il genere neutro per non urtare la sensibilità altrui. Discussi a lungo con lei, senza minimamente convincerla.
I nutili i tentativi di spiegarle che gli obbrobri grammaticali (assessora, rettora, sindaca e giù stravolgendo il nostro lessico) non sono indice di maggior e dovuto rispetto per le donne, che le vere conquiste riguardano ben altri aspetti. Niente da fare. Allora ho capito che, come diceva Erich Fromm, «la maggior parte della gente non si rende nemmeno conto del proprio bisogno di conformismo, vive nell’illusione di seguire le proprie idee ed inclinazioni, basta che le sue idee siano le stesse della maggioranza». È una sorta di riflesso pavloviano, di risposta istintiva a uno stimolo. Se si parla in termini non propriamente ortodossi del pianeta donna o della comunità omosessuale si è automaticamente «sessisti». Ciò che importa non sono i fatti, spesso nemmeno compiutamente analizzati, ma stare dalla parte giusta della barricata, che guarda caso coincide sempre con la narrazione mainstream, spesso pilotata dalle élites.
Quotone. Basta leggere qui o qui per vedere a quali vette di idiozia porta il voler “neutralizzare” il linguaggio con il pretesto dell’inclusività e del rispetto. Da notare anche un’altra cosa: se rispondi alle critiche, espresse in maniera non ingiuriosa e correttamente argomentate, frignando: “mi discriminano perché X-isti Y-fobi” l’unica cosa che si ottiene è il far passare gli “Y” per frignoni piantagrane e convincere che gli X-isti non son quei mostri che si racconta siano.
Il risultato è altamente schizofrenico. Da una parte abbiamo i social che sdoganano le nefandezze più orrende dei leoni da tastiera; dall’altra i media tradizionali dove ogni virgola deve essere al suo posto, guai a scarrocciare, deviare dalla rotta, i censori in servizio permanente sono subito pronti a consegnare patenti da sessisti, razzisti, fascisti.
E qui non son d’accordo; spesso anche i media “tradizionali” fomentano per fare notizia; per portare avanti qualche aspirante san giorgio spesso o fabbricano draghi di cartapesta (ad esempio il caso di judith, poi rivelatosi essere una bufala) o cercano di spacciare lucertole per pericolosissimi draghi sputafuoco (il caso osakue, “goliardi” trasformati in perfide SS che rastrellavano l’italia a caccia di necri). L’abuso dell’enfasi, e i paragoni a cazzo, alla fine causano assuefazione. Basta vedere oggi l’uso di parole come olocausto, deportazione, lager.
Da notare anche che, nel caso di judith ma anche in altri casi di “grave razzismo” poi rivelatosi essere bufale, i media hanno spudoratamente copiato dai social salvo poi cercare, goffamente, di rifarsi la verginità.
Confesso che sono rimasto sconcertato, tempo fa, da un episodio avvenuto a Cagliari. Un alterco ai giardinetti fra due donne e gli insulti a dei ragazzini di colore è diventato un caso per il quale Cagliari è diventata una «città razzista» e le massime autorità cittadine si sono dovute spendere per contestare l’etichetta che era stata ingenerosamente appiccicata a tutta la città. Ma scherziamo? Stiamo parlando del capoluogo di una regione che, pur non nuotando nell’oro, ha sempre accolto generosamente tutti. Di un’Isola che continua a chiudere gli occhi di fronte ai ripetuti sbarchi di clandestini algerini proprio per non alimentare tensioni che in altre parti d’Italia hanno assunto connotazioni sgradevoli.
chiudere gli occhi è pericoloso, soprattutto chiuderli per non alimentare tensioni, o il problema lo si risolve; l’algeria non è uno stato canaglia, non è uno stato in guerra e i suoi se li può ripigliare, oppure quando qualcuno, per esasperazione o per altro, urlerà che il re è nudo tutti lo seguiranno.
Evitare il razzismo cercando di nasconderlo sotto la polvere significa far aggravare la situazione. Poi ti trovi, che la gente, per esasperazione segue chi da risposte deliranti a domande giuste, ma perché? perché chi avrebbe dovuto dare risposte giuste invece ha preferito lottare contro le domande.
Eppure, se qualcuno osa mettere in dubbio le politiche di accoglienza indiscriminata, la patente di «razzista» non gliela leva nessuno. Come – di converso – se ci si spende legittimamente contro la politica dei porti chiusi voluta da Salvini si diventa automaticamente “buonisti”, un’altra etichetta di comodo, una semplificazione adatta per troncare ogni possibile discussione.
Questo è un esempio lampante del principio della “generalizzazione a cazzo”; se si pensa sia normale che chiunque non si riconosca nell’accogliamoli tutti indistintamente sia praticamente il cugggino di Hitler, perché ci si stupisce se si pensa che chi si oppone “al cugggino di Hitler” sia un* appassionat* di gang-bang interracial bisex e che aspiri a viverle ogni giorno da protagonist*? ogni generalizzazione “a cazzo” crea immediatamente una generalizzazione uguale e contraria.
Mi scuso se ho tediato i lettori, ma vorrei che fosse chiaro un punto. Non è mia intenzione difendere i buu di qualche imbecille da stadio. Gli ululati sono indifendibili ma non sono rappresentativi di una tifoseria e men che meno di un popolo. Da ragazzo ho avuto la fortuna di seguire il Cagliari negli anni d’oro dello scudetto. In trasferta i rossoblù, anziché dai buu erano accompagnati dai beee dei tifosi avversari. Gigi Riva raccontava che quei cori di scherno anziché deprimere caricavano la squadra. Si beccavano l’etichetta di «pecorai» e ci ridevano sopra. A quei tempi un’altra sportiva d’eccezione, Martina Navratilova, lesbica dichiarata che non si nascondeva e non aveva bisogno di acronimi per definire i suoi orientamenti sessuali, auspicava che la chiamassero come volevano: «Le etichette sono per gli archivi, per i vestiti, non per le persone».
Lasciamo le etichette ai soloni di turno, andare controcorrente spesso è necessario.
Aggiungo solo una cosa: spesso la difesa ad oltranza in minchiatine come i buuu da stadio alla fine fa passare l’idea di non avere davanti persone ma teneri panda da proteggere e tutelare. Peccato che poi il “tenero panda” spesso nasconda tanto paternalismo peloso ed interessato. Nessuna potenza coloniale europea dell’ottocento andava in Africa per depredare, andavano tutte a portare al civiltà e a proteggere i “teneri panda” da loro stessi.
Sappiamo come è andata a finire.