Un ottimo articolo di Luca Ricolfi sulla deriva dell’educazione in italia; piaccia o no l’educazione si basa anche sui sistemi “premi/punizioni”; di fatto si sta rinunciando ad educare scaricando “la patata bollente” ai genitori però fornendoli anche una signora scusa nel caso falliscano miseramente: la scuola ci ha lasciato soli.
Perché scuola e genitori devono funzionare in sinergia per educare e, nel caso l’uno o l’altro manchi ai doveri, occorre intervenire. Trasformare la scuola in un parcheggio ed in un comodo capro espiatorio per i genitori non conviene affatto. Piaccia o no il “caso manduria” nasce anche da quello.
fonte: https://www.ilmessaggero.it/AMP/editoriali/editoriali_luca_ricolfi-4471799.html?__twitter_impression=true
Educare senza sanzioni genera giovani mostri (Luca Ricolfi)
Chiunque abbia bambini che vanno alle scuole elementari sa perfettamente che, ormai da diversi decenni, non solo è praticamente impossibile bocciare un bambino, ma è anche rarissimo osservare sanzioni classiche, come l’ammonizione, la nota sul registro, la sospensione.
Al loro posto è invece dato osservare una serie di comportamenti sostanzialmente omissivi o elusivi: far finta di niente, limitarsi a redarguire più o meno blandamente, cercare di spiegare perché un comportamento è sbagliato e non dovrebbe essere ripetuto. I risultati sono scarsissimi, per non dire negativi, visto che il bullismo, sia quello tradizionale sia quello via internet, sono in aumento e coinvolgono spesso bambini, più sovente bande di bambini, che frequentano le ultime classi delle scuole elementari. (…)
Al loro posto si propone di estendere alla scuola elementare il farraginosissimo istituto del “Patto di corresponsabilità educativa”, che rafforza e incentiva uno dei più dannosi fenomeni culturali del nostro tempo, ovvero l’ingerenza dei genitori nel funzionamento della scuola, oltre a promuovere una sorta di Far West dei regolamenti, per cui ogni scuola si costruisce il suo patto, con tanti saluti a una delle idee più semplici della vita sociale, ossia che sia più efficace avere poche norme chiare e valide per tutti, piuttosto che lasciare a ogni comunità di darsi regole proprie (chi non avesse bambini a scuola, o non avesse idea di quanto avanti siano andate le cose rispetto a 20 o 30 anni fa, può leggere la pacata quanto agghiacciante testimonianza dello scrittore Matteo Bussola: “Sono puri i loro sogni”, Einaudi Stile Libero 2017).
E il non far niente, parlo per esperienza, spinge i bulli a fare di più. Io ho capito sulla mia pelle: “non prendertela, poi si stuferanno e stuzzicheranno qualcun’altro” funziona poco o male, invece una reazione sì. Essenzialmente il bullo cerca il più debole per dimostrare il suo potere. Trovarsi qualcuno che reagisce lo spinge a cercare altre potenziali vittime. Prediche infinite senza conseguenze che non una perdita di tempo sono invece un incentivo ed un motivo di bando del bullo.
Mi è capitato di insegnare in corsi di formazione professionale, corsi organizzati per recuperare studenti dispersi e far loro imparare un mestiere. organizzati in realtà per levare dalla strada quelli che oggi chiamerebbero “neet” e tentare di far imparare loro un lavoro con il quale si sarebbero potuti mantenere. Le classi, come quelle degli altri corsi attivati, aveva molti problemi di disciplina. La cattiva disciplina è stato un crescendo rossiniano di rotture di scatole. L’essere gruppo, da parte degli studenti ed il senso di impunità dovuto al fatto che il responsabile dei corsi non faceva altro che dire: “bisogna comprenderli, se li molliamo son persi, sorvolate, comprendete, chiudete un occhio” in realtà li spingevano ad alzare continuamente la posta. Prima il chiasso in classe, poi il giocare con le suonerie durante la lezione, poi l’iniziare a rispondere male al docente che li riprendeva. Alla fine c’è stata l’ultima spiritosata: un ragazzo ha staccato dal muro un estintore e l’ha usato per spruzzare i compagni come se fosse stata schiuma di carnevale. A quel punto c’è stata una rivolta dei docenti ed anche il coordinatore si è dovuto svegliare e son, finalmente, partite le legnate. Il ragazzo dell’estintore è stato espulso, senza se e senza ma, gli altri “spiritosi” si son beccati un bel po’ di giorni di sospensione e son stati avvisati: ogni tre note un giorno di sospensione e se i giorni di sospensione arrivavano a sette finivano espulsi. Si perse un ragazzo, si salvarono molte classi visto che l’ambiente migliorò notevolmente molti smisero di fare gli spiritosi. Quando poi andarono a fare il tirocinio ed alcuni tornarono con un contratto di pre assunzione in tasca, cioè se prendevano la qualifica sarebbero stati assunti dalla ditta meccanica cui avevano fatto lo stage, capirono che stavano lavorando “per loro stessi” e le classi divennero quasi modello.
E’ stato utile il “terrore giacobino” in classe? è stato utile perdere il ragazzo per lo scherzo dell’estintore? La risposta è sì ad entrambe le domande; servono regole, per insegnare a seguire le regole servono regole, poche chiare e fatte rispettare, non bizantinismi o pipponi pseudomoralisticheggianti. Serve “punire” e perdere un ragazzo? Purtroppo se la scelta è fra il perdere un ragazzo e il perdere tutta la classe, la cosa giusta è “perdere” il ragazzo, non ha senso condannare tutti per cercare di salvarne solo uno.
Una chiara testimonianza di quanto certe idee, che eravamo abituati ad attribuire alla mentalità progressista, siano ormai penetrate nello spirito pubblico, coinvolgendo anche quanti un tempo le combattevano.
Ma quali idee? Fondamentalmente tre convinzioni. La prima è che, nel processo educativo, le sanzioni non debbano e non possano svolgere alcun ruolo. Chi sbaglia deve essere convinto a cambiare comportamento con la sola forza della persuasione. L’uso di punizioni, anche di lieve entità, non solo sarebbe controproducente, ma sarebbe la testimonianza del fallimento del processo educativo.
Grande stronzata: senza il sistema “premi/punizioni” nessun sistema educativo funziona.
La seconda è che, a dispetto della loro conclamata incapacità (o non volontà) di educare i figli, l’ultima parola spetti ai genitori, unici giudici dei loro pargoli, unici arbitri e custodi del destino delle loro creature. Di qui la tendenza a porsi verso ogni autorità, ma prima di tutto verso l’autorità scolastica, come sindacalisti dei propri figli.
E questo poi si traduce in un danno per i figli. Cresci persone intimamente fragili che alla prima difficoltà vera crollano; non puoi portarti mammà al colloquio di lavoro o durante i test di un concorso. Che piangere e battere i piedi per terra non commuove affatto un sistema automatico che deve decidere se concedervi o no una linea di credito. Se non fai acquistare a tuo figlio una corazza contro “le brutture del mondo” poi non stupirti se quelle riescono a ferirlo molto facilmente.
Ma la più pericolosa è la terza convinzione, che forse più che una convinzione vera e propria è una sorta di strabismo, di partito preso, o di riflesso pavloviano. Quando qualcuno viola le regole, il che quasi sempre comporta la sofferenza di qualcun altro (si pensi alla diffusione del bullismo, già alle elementari), stranamente la pietas, la compassione, quasi automaticamente si indirizzano verso i prepotenti, che andrebbero capiti, perdonati e rieducati, e ignorano le ragioni delle vittime. Curiosamente, chi fa proprio l’imperativo del perdono, non sente altrettanto forte il dovere di impedire che altre violenze e sopraffazioni si scatenino contro nuove vittime.
Eppure è proprio questo il nodo della questione. C’è un’incredibile ingenuità pedagogica e sociologica nella credenza che, per la prevenzione di fenomeni come il bullismo e il cyberbullismo nelle scuole, possano bastare corsi, lezioni, momenti di sensibilizzazione, ammonimenti, prediche, e che ogni punizione sia inutile o addirittura controproducente. Come se la consapevolezza di non rischiare alcuna vera sanzione non fosse un potente incentivo a perseverare nei comportamenti più aggressivi, violenti e anti-sociali. Come se, soprattutto, la rinuncia delle istituzioni a sanzionare i comportamenti più scorretti, più che una forma di umana comprensione per chi sbaglia, non fosse invece quello che è: una forma di disumana indifferenza verso le vittime.
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Il far sentire la vittima sola, il far pensare che lo stato sia un complice dei bulli e che ci si debba difendere da soli o appoggiarsi al don Vito Corleone di turno; nell’opera di Mario Puzo, il padrino, don Vito viene presentato come un “raddrizza” torti. Una delle sue azioni, descritte nell’inizio del romanzo, è il far menare e spedire all’ospedale due ragazzi che avevano aggredito la una ragazza e che, denunciati, se la erano cavata solo con una predica.
In quelle condizioni tifare per Vito Corleone o per Paul Kersey è scontato. E il “luca traini” della situazione è una logica quanto inevitabile conseguenza.