Donne che di mestiere si contano i cuoricini spiegano il femminismo alla Aspesi – Linkiesta.it

Ottimo articolo di Guia Soncini; non mi piace molto la Aspesi ma stavolta quando ha detto che il crepare per il lavoro è più grave di avere qualche idiota che ti fischia dietro son partite le urla isteriche di tante pseudo femministe

Eppure ha ragione, la morte della D’Orazio ha creato più di uno sconquasso fra le femministe; non puoi catalogarlo come femminicidio, e se parli della sicurezza del lavoro “femminile” salta fuori la quota maschile delle morti bianche e il gender gap nei decessi. Argomenti spinosi

Quindi meglio polemizzare contro chi, donna, pensa che finire stritolata da un macchinario sia leggermente, ma solo leggermente, peggio di un “ah bona” dietro.

Sorgente: Donne che di mestiere si contano i cuoricini spiegano il femminismo alla Aspesi – Linkiesta.it

’internet inveisce contro l’editorialista di Repubblica perché ha detto che i morti in fabbrica sono un problema più grave del catcalling, la accusa di strumentalizzare le questioni per diventare trending topic (avrà presto 92 anni) e invoca il pensionamento suo e di tutti quelli della sua generazione (che paga quelli della mia per fare i food blogger fashion advisor in Australia)

ROTFL; gli stessi che sposano ciecamente l’idea che chi ha più like vince; se un post ne fa 100.000 di cuori e quello contrario solo 1.000 allora ha ragione il primo. Come spesso capita si accusano gli altri dei propri peccati.

(…) C’è un gruppo milanese chiamato I sentinelli, il nome fa il verso agli estremisti cattolici, la linea politica è quella del club dei giusti: chiedono la rimozione della statua di Montanelli, organizzano la piazza milanese a favore della legge Zan. Ieri hanno pubblicato su Facebook un post in cui compiaciutamente dicevano di non volere il sostegno alla legge Zan di Alessandra Mussolini.

Però se dici che la legge è solo un “randello” per poter vincere le discussioni a colpi di accuse di omofobia allora sei omofobo.

(…) Venerdì sono usciti, per coincidenza, due scandalosissimi pezzi della Aspesi. Una era la sua risposta all’abituale rubrica delle lettere sul Venerdì. Rispondeva a un’indignata perché Natalia aveva osato difendere il biografo di Roth. La lunga risposta conteneva le preveggenti frasi «Certe battaglie funeree che mettono sullo stesso piano le molestie e lo stupro mi pare abbiano fermato solo le molestie ma non ancora lo stupro», e «Pretendere che il passato sia stato come l’oggi è ingiusto». Diavolo d’una donna, ha scritto dieci giorni prima la risposta ai deliri di Instagram di dieci giorni dopo.

E ha ragione in entrambi i casi. Se dici che la molestia è come lo stupro qualcuno inizierà a pensare che stuprare una tizia sia la stessa cosa che dire “a bona”. I paragoni funzionano sempre nei due versi.

E ha ragione anche sul passato, se si misurasse con il metro di oggi il passato dovremmo cancellare tutto o quasi. E il problema è che in quel tutto ci finiranno anche i simpatici. Vedi le acrobazie per difendere Fedez e certi suoi versi.

Venerdì infatti, e questa è stata la causa principale dell’isteria delle cancellettiste, Natalia scriveva su Repubblica di Luana D’Orazio, l’operaia inghiottita da un macchinario che ha fatto scoprire ai giornali la questione delle morti sul lavoro. Aspesi – con la grazia d’una signora beneducata d’altri tempi, la solidità di chi è cresciuta quando a sinistra si studiava Marx e non i cancelletti, e il senso delle priorità di chi ha visto guerre mondiali e non solo il trauma della connessione che s’interrompe mentre guardi Netflix – ha scritto settanta garbate righe per dire che forse dovrebbero (le giovani femministe) occuparsi anche di questa drammatica questione, se il bodyshaming (cioè: quelli che mi dicono che sono una vescica di lardo) e il catcalling (cioè: quelli che mi fa fischiano per strada benché io sia una vescica di lardo) lasciano tempo.

Non paga di questa vergognosa provocazione, ha osato pure ricordarci che sul lavoro muoiono più uomini, il che se sapete leggere è un pizzino ai giornali che si occupano del problema solo quando muore una ragazza fotogenica, e se invece avete il cervello a forma di cancelletto apriti cielo.

A malignare direi che è meglio sparsi pose da S. Giorgio e lottare contro draghi di cartapesta che affrontare draghi reali che sputano veramente fuoco.

Trentaduenne, duecentotrentamila e fischia follower, moltiplicati quando Chiara Ferragni l’ha indicata come sacerdotessa del nuovo femminismo (il che le ha finalmente portato ciò cui il femminismo di Instagram tende: case di moda che ti paghino per indossare i loro prodotti), la signorina che non nominerò ha diviso la sua invettiva in meno storie rispetto alla quarantaduenne (la verbosità ci viene invecchiando), ma molto interessanti.

Comincia anche lei col benaltrismo, categoria dello spirito già utilizzata da quella col filtro seppia (che si era rifiutata di nominare, oltre che Aspesi, anche Repubblica, indicandola come «la gazzetta del benaltrismo»). Secondo lei dire che le morti sul lavoro sono più gravi di chi ti fischia per strada è benaltrismo, serve a «deviare l’attenzione dal topic principale» (come tutti coloro che non hanno il dominio d’alcuna lingua, queste ragazze tendono a mescolarle malamente).

Tanta confusione mentale è figlia del MeToo e della sua convinzione che fare gerarchie dei problemi sia offensivo (mica quella ammazzata di botte ha più ragioni di lagnarsi di me cui hanno detto «vescica di lardo», diamine). Altrove, si tenta anche di razionalizzare l’obiezione.

 

Altrove e cioè nei commenti d’altro innominato. Quarantasettenne (con stile di vita da trentenne e raziocinio da quindicenne), fumettista, quarantamila follower su Facebook. Che cos’ha scritto ve lo dico dopo, perché merita un siparietto comico tutto suo. Prima i commenti, il mio preferito dei quali, ricordiamo relativo all’aver un’editorialista osato dire che «abbòna» per strada è meno grave che morire alla catena di montaggio, è: «La scaletta delle umane priorità la stabilisce Natalia Aspesi, a cui le comunica direttamente il Dio dei vecchidimerda». (Peraltro, essendo Aspesi assai più garbata di me, nell’articolo non dice neppure quali imbecilli falsi problemi siano quelli su cui ci si concentra: come una signora dei tempi in cui esistevano le buone maniere, scrive «giusta battaglia contro i maschi sopraffattori», prima di osare suggerire di trovare tempo per occuparsi anche di operai uccisi dalle catene di montaggio o dai cantieri).

Nessuno studia niente, nessuno si prepara su niente, nessuno si preoccupa di sapere ciò di cui parla, prima di contarsi i cuoricini. È la sintesi d’un qualunque giro sui social e di questo in particolare.

Purtroppo si, mostra non dire.

Non sa niente la trentaduenne che dice, delle righe in cui Aspesi ricorda che muoiono più uomini, «grazie al cazzo, perché mancano politiche di welfare», e quindi ci sono meno donne nel mondo del lavoro. No, pulcina: è perché ci sono solo uomini nei cantieri, dove muore la più parte di chi muore sul lavoro, e non ci sono donne nei cantieri per ragioni diverse dagli asili nido – se ti concentri capisci da sola quali.

Argomento pericoloso; magari qualcuno proporrà le quote rosa “obbligatorie” alla betoniera…

Non sa niente, né ha il senso del ridicolo, il quarantasettenne che così dà la stura a centinaia di commenti indignati: «La Aspesi sente la necessità di usare la morte di una ragazza per poter scrivere nel suo pezzo parole come “catcalling”, “bodyshaming” e Tik Tok (che, si sa, con i webcrawler vanno forti) e dire alle giovani ragazze che i veri problemi sono ben altri». Quindi secondo lui Natalia Aspesi – novantaduenne editorialista d’un giornale che oltretutto fa pagare la lettura on line dei suoi editoriali, e i cui testi non finiscono quindi nei motori di ricerca – si mette lì a scrivere e dice: mmm, vediamo come posso diventare trending topic.

Questo articolo potrebbe essere lungo come “Via col vento” (un romanzo pieno di bodyshaming), giacché ci sono centinaia di meraviglie citabili. La trentaduenne esagitata dice che Aspesi l’articolo l’ha scritto perché «ha dei grossi problemi personali con la quarta ondata, da tempo, lei è una second waver» – ci manca solo: è invidiosa perché noi siamo giovani e modelle. Sempre la trentaduenne dice senza ironia che, fosse nei parenti della ragazza morta, «io una querela la farei» (il fantasioso rapporto dell’internet col codice penale, la commedia che non capisco come mai nessuno abbia ancora scritto).

Semplicemente molti pensano che il codice penale debba difendere, senza se e senza ma tutte le loro pippe mentali. Se io penso che X non sia corretto, dove X può essere una minchiata qualsiasi come anche i risvoltini, allora X deve essere sanzionato penalmente.

Queste deliziose tele bianche sulle quali nessuno ha mai pittato una nozione, se leggono una che dice che nella battaglia contro le morti sul lavoro «non lasciandola solo ai sindacati e alla politica […] potreste dare una mano essenziale, armando di indignazione i vostri follower», la traducono in: sta cercando di deresponsabilizzare la politica. Se leggessero Marx direbbero che è un maschio bianco privilegiato che non si occupa dei diritti dei trans. Siccome non lo leggono, trovano offensivo che qualcuno dica a militanti di sinistra di occuparsi di diritti del lavoro, quando ci sono i diritti ai pronomi giusti cui dedicarsi.

I follower del quarantasettenne ci spiegano che se ci fischiano per strada o ci danno di culone poi arrivano «depressione e disturbi alimentari» (ci vorrebbe una guerra, o almeno la miniera: lo dico io perché Aspesi è troppo garbata anche solo per pensarlo); che «il sessismo è personale, quindi è normale che se ne parli di più» (la fortuna di Marx di arrivare prima che decidessimo che esiste solo ciò in cui possiamo specchiarci).

invece da una pressa esci scoppiando di salute… C’è un problema serio di proporzioni; il mio culo è misura di tutte le cose.

A un certo punto arriva una persona normale e chiede «perché nessuno ha scritto alle fabbriche per chiedere di migliorare i protocolli di sicurezza ma tutti hanno scritto a Repubblica per insultare la Aspesi?», e sembra un’aliena.

Touché

Il quarantasettenne invoca un pensionamento della generazione di Aspesi (avvenuto il quale si scoprirebbe che la nostra è piena di Hemingway, mica di piscialetto che si autocertificano grandi successi). Il mio preferito, tra molte centinaia di commenti, è quello d’un tizio che scrive, a nome dei nati dell’ultima parte del Novecento, la più taciuta delle grandi verità: «La vedo dura, quella generazione paga la mia per fare i “food blogger fashion advisor” in Australia».

Touché di nuovo.

Meno male che la Aspesi c’è, almeno mentre facciamo mestieri in cui contarci i cuoricini abbiamo qualcuno che ci ricorda com’è il mondo senza filtri seppia.

8 pensieri su “Donne che di mestiere si contano i cuoricini spiegano il femminismo alla Aspesi – Linkiesta.it

  1. Grazie per il consiglio, molto interessante.
    Una chicca dal libro; un tweet citato dall’autrice:

    “Quattordicesimo secolo: muoio di peste bubbonica.
    Diciannovesimo secolo: ho nove anni e lavoro in una miniera di carbone.
    Ventesimo secolo: mi spediscono a combattere in guerra.
    Ventunesimo secolo: MI OFFENDO.”

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    • Una delle cose più spettacolari del libro è la storia di quello che chiedeva alle signore o signorine che gli capitavano davanti: “Le dà fastidio se mi masturbo?” Loro ovviamente rispondevano che sì, certo che mi dà fastidio, al che lui apriva la patta e procedeva, e quello che è successo in relazione a questo quando è esplosa l’orgia del metoo.

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  2. Parli di questo?

    “C’è un comico che non si può più citare giacché aveva l’abitudine di chiedere a signorine del suo ambiente lavorativo se desse fastidio il suo eventuale masturbarsi davanti a loro, e ricevuto l’assenso procedeva. All’inizio del MeToo, alcune delle signorine raccontarono al New York Times che il signore aveva commesso una violenza, giacché esse avevano sì detto di sì, ma solo perché, egemonizzate dal suo maggior successo professionale, ritenevano insubordinazione dire di no.”

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    • Sì, questo, e in particolare la storia della telefonata.
      Tutte le donne che hanno parlato di quella vicenda facevano (fanno) le comiche, e più o meno tutte hanno argomentato che il vero scandalo fosse che le loro carriere non erano decollate, per colpa del bruto che le aveva traumatizzate prima e ostacolate poi. […]
      Noialtre leggevamo da mesi i resoconti chiedendoci come fosse possibile che uno che ha come fantasia sessuale farsi una sega davanti a donne con cui non ha relazioni, come fosse possibile che l’immagine di questo tizio che si sbottona i pantaloni paonazzo non fosse oggetto di ridicolo ma di terrore […]
      E ancora: «Una delle signore ha detto: “Eravamo al telefono, e mi sono accorta che si stava masturbando”. Non sai riattaccare il telefono?».[…]
      A me sembra che l’unica domanda seria, sull’affaire CK, l’unica domanda femminista, l’unica domanda che prendesse sul serio le ambizioni professionali delle signore, se la sia fatta proprio Chappelle: «Com’è possibile che nessuna abbia ancora scritto il monologo Non riuscivo a riattaccare il telefono?».

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      • A malignare mi verrebbe da pensare che non son riuscite a “bucare” lo schermo e quindi vedono il passare come vittime del patriarcato come una seconda possibilità.
        Come quella tizia, italiana, che poverina era costretta a prendere voli intercontinentali per andare a farsi stuprare. Manco a casa di lei veniva il porco,

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