Studiare non serve a niente: ora lo dice anche il Ministero – Linkiesta.it

Un interessante articolo de l’inkiesta sulla scuola.
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Studiare non serve a niente: ora lo dice anche il Ministero
L’istruzione italiana si arrende in via ufficiale: basta la media del sei per accedere alla maturità. Una bandiera bianca dopo anni di invettive contro il ’68 e il 18 politico, di promesse di riforma e di obiettivi sulla media europea. In Italia lo studio non dà cultura e nemmeno un lavoro

Anni di invettive contro la cultura sessantottina, i disastri fatti dal ’68, la piaga educativa dei genitori venuti del ’68, dei professori formati dal ’68, dei libri scolastici prodotti dal ’68 e soprattutto delle scuole del ’68 iconizzate dal surreale istituto sperimentale Marilyn Monroe di Nanni Moretti, dove la foto del presidente della Repubblica è sostituita da quella di Dino Zoff e i professori tengono lezioni su Gino Paoli. Anni di annunci: faremo marcia indietro. Anni di promesse: arriverà il merito. Lo standard europeo. I test Invalsi per certificarlo. Dovranno studiare o rifugiarsi nei professionali.

 

“Dovranno studiare o rifugiarsi nei professionali.” In questa frase c’è il motivo della sconfitta. La scuola, professionali compresi, serve per acquisire competenze, non è baby sitting per adolescenti annoiati. Il primo errore è stato quello: il pensare che tutti dovessero andare a scuola e il respirare l’aria della scuola servisse per acquisire conoscenza. No, è sbagliato. L’errore del ministero è stato quello di voler un utopistico sistema con uno stringente controllo di qualità che però non scarti alcun pezzo. Semplicemente assurdo. Assurdità che però è stata sostenuta in massa dal personale della scuola stessa. Quante battaglie sindacali son state fatte contro l’invalsi, contro qualsiasi tipo di selezione, contro il merito? La massa ha vinto ed il ministero ha perso. Almeno la massa abbia il coraggio di ammettere che il ministero ha dato retta alle loro richieste e che non faccia penosi distinguo: “io sono per il merito ma deve essere valutato in un altro modo”. Peccato che nessuno abbia proposto modi alternativi, attuabili, di valutazione.

Oltre i dettagli tecnico-didattici, la resa delle istituzioni al Sei Politico è una beffarda metafora dei fallimenti del mondo adulto, che prima ha criminalizzato gli anni dei Tazebao riducendoli a un racconto di delinquenza e pigrizia, poi ha insultato gli anni della play-station come territorio del disimpegno e del nulla, e infine ha alzato bandiera bianca dicendo: fate un po’ come vi pare. Alla selezione ci penserà la vita, o meglio le famiglie, che gli studi “che valgono” ormai sono quelli all’estero e i diplomati del Marilyn Monroe finiranno comunque – salvo eccezioni – nei call center, versione contemporanea del cantiere cui si avviavano i somari di una volta (ora in cantiere ci stanno i rumeni).

E perché ci finiscono nei call center? Cosa sanno fare di utile? cosa hanno imparato? e come possono dimostrarlo? Se si da il titolo a tutti, il titolo non certifica più nulla. Le aziende non ne terranno conto e chiederanno altri indizi per dimostrare il possesso di competenze e capacità.  Se vincevi la medaglia d’oro alle regionali, allora eri bravo e andavi alle finali nazionali. Se alle regionali diamo la medaglia d’oro a tutti, come distinguere il capace dal brocco?

Poi dicono: questi non studiano. Ma la domanda “a che cosa serve la scuola?” che una volta era il rifugio degli asini, oggi pare piuttosto pertinente. A che cosa serve la scuola se comunque non avrò lavoro? E se il lavoro, nel caso lo trovassi, avrà la consistenza di una chiamata a voucher o di un contratto Almaviva? Il Sei Politico prossimo venturo offre una sponda di Stato a questi interrogativi e dice ai diretti interessati: arrangiatevi un po’ come volete. Noi più di così non possiamo fare. Ci abbiamo provato, siamo esausti. Spicciatevela da soli, e buona fortuna.
La risposta è semplice: una scuola che non seleziona e che promuove tutti non serve a niente visto che il titolo non dimostra alcunché. Ci sarebbe da porre un’altra domanda: volete voi una scuola che promuova tutti, perché devono essere promossi, o una scuola che promuova solo i capaci facendo sì che il titolo conseguito dimostri qualcosa? Che l’azienda che assume un diplomato possa fidarsi che il medesimo “sappia”? Ecco.

PS
oramai il vero esame si è spostato all’ammissione all’università. Infatti i corsi che ancora danno qualcosa, in termini lavorativi, son quelli selettivi, non quelli che imbarcano e laureano di tutto e di più.

 

2 pensieri su “Studiare non serve a niente: ora lo dice anche il Ministero – Linkiesta.it

  1. E’ l’evoluzione del pezzo di carta, quella cosa a cui a suo tempo molti di noi, me compreso, ha creduto, salvo ora ritrovarsi con l’equivalente dei “dieci piani di morbidezza”, ma questa volta sarà un passo in avanti, sarà un po come in USA, con gli italiani che diventeranno i “neri” europei, con scuole molto politically correct nelle quali imparare poco e niente, fabbriche di pezzi di carta per tutti, col divieto di turbare con bocciature esami e inutili compiti.
    Facilitare facilitare facilitare, e il risultato sarà avere gente che esce di scuola con capacità nulle, che appena s’immergerà nella vita reale si chiederà come mai non trova lavori “buoni”, ma solo e se capita ripieghi sottopagati o da schiavo, persone che con rabbia vedrà andare avanti quelli ricchi che hanno studiato nelle scuole private, dove magari si boccia e la competizione è dura, oppure gli europei che studiano in altre scuole dove anche là niente è facile.
    E ci sarà rabbia, tanta, frustrazione e la sensazione di essere degli esclusi, di essere discriminati ingiustamente forse perché degos, in compenso più umanesimo per tutti, affinché almeno a parole si capisca meglio la propria condizione di “oppressi” e darsi ragione.

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  2. L’ha ribloggato su fallischaunge ha commentato:

    Nella classe che frequentavo io, c’era un gruppo ben nutrito di ignorantoni originari della campagna, i quali non facevano mai un giorno d’assenza (se non quando c’erano gli scioperi).
    Questo perchè preferivano andare a scuola a passare tempo piuttosto che rimanare a casa a zappare.

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